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“Gerusalemme: un accordo impossibile?” di Paolo Pieraccini ed Elena Dusi

Anche l’ultimo tentativo di raggiungere un’accordo su Gerusalemme è naufragato nel gennaio 2001. A nulla sono serviti gli sforzi dell’ex-presidente americano Bill Clinton e del premier uscente israeliano Ehud Barak. I due, durante lo svolgimento dei negoziati di Washington, erano ormai allo scadere del proprio mandato, privi quindi della legittimità necessaria per compiere lo storico passo. Il leader palestinese Yasser Arafat non ha avuto il coraggio di sfidare l’oltranzismo del suo popolo concludendo un accordo destinato con tutta probabilità a rimanere lettera morta. “Nessun documento di pace senza la sovranità su Gerusalemme Est e sui suoi luoghi santi”, aveva puntato i piedi Arafat, “Non firmerò alcun trattato che lasci ai palestinesi la sovranità sul Monte del Tempio”, aveva replicato Barak [1], che si era preoccupato di rassicurare i due rabbini capo di Israele della propria intenzione di non cedere a nessun costo [2].

Clinton – già nel luglio 2000 a Camp David – aveva cercato di aggirare l’ostacolo suggerendo delle soluzioni creative, ponendo l’accento sulle parole “possesso”, “amministrazione”, “autorità”, anzichè su quella così ingombrante di “sovranità”. Ma il gioco di prestigio non è riuscito. Mentre in luglio le delegazioni negoziavano, la Knesset (il parlamento israeliano) approvava una risoluzione che “blindava” Gerusalemme, abbassando una pesante saracinesca su ogni tentativo di compromesso. Il 28 novembre 2000 è passata a maggioranza schiacciante (84 voti contro 19) una legge di rango costituzionale che impedisce ogni cessione di sovranità sulla parte orientale della città [4]. Per modificarla occorrerebbe la maggioranza assoluta di 61 voti su 120, difficile da raggiungere quando è in ballo una questione che coinvolge l’identità stessa dello Stato ebraico [5]. Un sondaggio effettuato per Journal of Palestine Studies aveva dimostrato qualche anno prima (1997) che l’80% degli israeliani rifiuta l’idea di vedere sorgere la capitale dello Stato palestinese a Gerusalemme Est, che il 78% si oppone a qualsiasi negoziato sul futuro della città e che il 60% manterrebbe questa posizione anche se ciò significherebbe il totale fallimento dei negoziati.

La questione di Gerusalemme ancora una volta si è rivelato uno dei nodi più intricati del conflitto arabo-israeliano. Ne era perfettamente cosapevole il premier Yitzhak Rabin quando, il 13 settembre del 1993, firmò la “Dichiarazione di principi” con Arafat rimandando i negoziati sulla città a tempi migliori. E ne era consapevole anche il leader del Likud, Ariel Sharon, quando il 28 settembre 2000, decise di recarsi sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell’Islam dopo La Mecca e Medina. La camminata di Sharon è stata una freccia mirata direttamente al cuore del problema. Con il suo gesto, il “falco” israeliano ha voluto rivendicare la sovranità israeliana sul sito religioso venerato da entrambe le religioni (gli ebrei lo chiamano “Monte del Tempio”, i musulmani “Haram Al-Sharif”, “Nobile Recinto”). All’uscità, parlando con la stampa, ha calcato con enfasi su un termine – sovranità appunto – su cui fa perno il braccio di ferro israelo-palestinese per un accordo di pace [5]. Ma Sharon ha fatto ancora di più, andando a colpire il simbolo più recente del confronto tra ebrei e musulmani in Palestina: la moschea Al-Marwani, un ampio locale di 500 metri quadri posto nei sotterranei dell’Haram Al-Sharif, conosciuto come “Stalle di Salomone”. Da lungo tempo oggetto di restauri per essere adibito a luogo di preghiera islamico, esso è stato aperto al culto nel 1996. Ai reiterati tentativi della municipalità di Gerusalemme di fermare i lavori, i responsabili del Waaf (l’autorità che sovraintende ai luoghi sacri islamici) hanno sempre risposto che l’Haram appartiene ai musulmani e che nessuna legge o autorità israeliana potrebbe impedire il prosequimento dei lavori [6]. Alcuni studenti israeliani di archeologia, andando a rovistare tra le macerie degli scavi gettate nella valle del Kidrom, affermarono di aver trovato dei reperti risalenti all’epoca del Primo Tempio. In una regione nella quale l’archeologia è piegata alle ragioni di Stato, le Stalle di re Salomone potrebbero dunque rappresentare una preziosa testimonianza del legame tra il popolo eletto e la Terra Santa e di conseguenza una base solida per le rivendicazioni politiche di Israele. Il Waaf all’inizio del 2000 avviò nuovi scavi per creare un’uscita di sicurezza alla moschea Al-Marwani. Molti esponenti della destra israeliana colsero l’occasione per eccitare un’ennesima disputa di impronta nazionalistica: il Governo permettendo a religiosi islamici nominati dalla ANP di esercitare una vasta autonomia sul Monte del Tempio, aveva indebolito la sovranità di Israele sul sito e di riflesso, sull’intera Gerusalemme. I lavori condotti dalle autorità islamiche senza alcun controllo del dipartimento delle Antichità di Gerusalemme si sono presto trasformati in un punto di frizione fra ebrei e musulmani. Su questo contenzioso si è gettato il falco Sharon. Quando il 28 settembre 2000, l’esponente del Likud è sceso lungo le scale che portano al sotterraneo, un gruppo di palestinesi è insorto per aggredirlo e gli scontri dell’intifada Al-Aqsa hanno preso il viaIl copione di questa rivolta è simile a quello dei disordini del 1996. Oggetto della discordia furono allora gli scavi condotti dagli israeliani lungo il tunnel che corre parallelo al Muro Occidentale. Già da tempo gli archeologi avevano annunciato la presenza in quel sito di importanti resti di epoca asmodea. Ma nel settembre del ’96 la situazione degenerò a causa della decisione del governo di Netanyahu di realizzare la seconda uscita del tunnel in pieno quartire arabo. La mossa – nelle intenzioni del premier – avrebbe riaffermato la sovranità esclusiva di Israele sull’intera Gerusalemme [7]. Arafat rivestì la questione di una connotazione religiosa. Il leader dell’OLP definì la mossa “sacrilega” nei confronti dell’Islam e dichiarò che gli stati arabi non poteva assistere inerti alla “giudeizzazione” di Gerusalemme [8]. Secondo le autorità palestinesi, obiettivo degli ebrei era minare le fondamenta delle moschee, per farle crollare e per poi riedificare il Terzo Tempio. I disordini provocarono una ottantina di morti, in maggioranza palestinesi.

La storia

Simboli e vestigia, dunque. A questo si riduce il valore di Gerusalemme. Una città la cui importanza strategica è nulla. Situata su una collina brulla, lontana dal mare, senza corsi d’acqua che la attraversano, la città sembrava destinata a languire al di fuori delle principali rotte commerciali. Ma, attorno all’anno 1000 a.C., la conquista da parte di re Davide ne cambiò il destino. Secondo la Bibbia, Davide comprò un terreno dagli originali abitanti  gebusei “per cinquanta scicli d’argento” con il proposito di erigervi “un altare del Signore” [9]. Su quel terreno il figlio Salomone fece costruire un Tempio [10], trasformando definitivamente la capitale politica del regno in città santa ebraica. Mille anni più tardi la città divenne teatro dei principali eventi della missione redentrice di Gesù: la sua predicazione, morte, resurezione. Una tarda esegesi del Corano, infine, individuò in Gerusalemme la meta del viaggio notturno che portò Maometto dalla Mecca al cospetto di Allah, passando dalla sacra roccia dell’Haram [11]. I romani capirono subito che da quel magma messianico sarebbero sorti infiniti problemi. Perciò, dopo aver raso al suolo il Tempio nel 70 d.C., 65 anni più tardi fecero altrettanto con la città, mutandone il nome in Aelia Capitolina, edificandovi un importante tempio di Giove e cacciandone tutti gli ebrei. Ma non servì a nulla. I luoghi sacri presto rispuntarono, le battaglie per Gerusalemme anche. Riconquistata dai crociati a prezzo di un’enorme bagno di sangue nel 1099, Gerusalemme tornò all’Islam per opera di Saladino nel 1187, divenendo in seguito una sonnacchiosa città di provincia dell’impero ottomano (1517). Durante gli ultimi decenni della dominazione ottomana, la città assistette all’aumento progressivo degli ebrei. Questa comunità nel 1880 ammontava a 17 mila persone, a fronte di 8 mila musulmani e 6 mila cristiani. Ai primi ebrei, giunti a Gerusalemme per scopi unicamente devozionali, nei decenni successivi si aggiunsero gli immigrati sionisti. Una parte di questi, permeati di un acceso sentimento nazionalista, vedevano nei luoghi santi ebraici dei simboli nazionali oltre che religiosi. In seguito alla dichiarazione Balfour del 1917 e alla sostituzione del dominio inglese a quello ottomano il conflitto tra arabi ed ebrei si inasprì. Culminando negli incidenti dell’agosto 1929 che – scaturiti da alcune diatribe religiose al Muro del Pianto ma determinati dal timore arabo di veder nascere uno stato ebraico in Palestina – causarono la morte di 133 ebrei. Le vittime da entrambe le parti si moltiplicarono nel corso della rivolta del 1936-39. Essa, scaturita dal vertiginoso aumento dell’immigrazione ebraica in seguito all’avvento del nazismo, riprese con la fine della guerra e costrinse le autorità mandatarie britanniche a rimettere la questione nelle mani delle Nazioni Unite.

Un regime internazionale

Il 29 novembre 1947 l’assemblea generale dell’ONU votò la risoluzione 181, che prevedeva la nascita di due stati – arabo e ebraico – uno accanto all’altro. Gerusalemme sarebbe stata trasformata in un corpus separatum sottoposto a amministrazione internazionale. I suoi confini sarebbero corsi a nord fino a Shu’fat, a sud fino a Betlemme, a ovest fino a Ein Karem e a est fino a Abu Dis. Questa enclave avrebbe ospitato 100 mila ebrei, 65 mila arabi musulmani e 40 mila cristiani. Al Consiglio di amministrazione fiduciaria dell’ONU venne affidato il compito di redigere lo statuto della città. Trascorsi 10 anni il futuro di Gerusalemme sarebbe stato deciso dalla sua popolazione tramite referendum. Tuttavia, la realtà seguì un corso diverso. Il 15 maggio del 1948, giorno della proclamazione dello Stato di Israele, gli eserciti di Libano, Siria, Transgiordania, Iraq ed Egitto invasero la Palestina. Gli israeliani tennero duro nella parte occidentale di Gerusalemme, mentre il 28 maggio la Legione araba della Transgiordania occupava la sezione orientale della città, inclusa la parte vecchia. La formula del corpus separatum venne riproposta da una nuova risoluzione (la 194 del 11 dicembre 1948), ma nessun provedimento internazionale potè mutare la situazione di fatto: Gerusalemme era ormai una città divisa in due. A niente valsero gli appelli di papa Pio XII, che con due encicliche chiese l’instaurazione di un “regime internazionale” a Gerusalemme, per «garantire la tutela dei santuari», assicurare libertà di accesso e di culto, rispettare le «costumanze» e le «tradizioni religiose [12]. Alla proposta della Santa Sede si opposero i capi religiosi delle comunità cristiane non cattoliche della Palestina, abilmente persuasi dagli israeliani che il Vaticano mirava all’istaurazione del corpus separatus per estendere la propria influenza nella regione [13]. L’approvazione di una nuova risoluzione (la 303 del 9 dicembre 1949) che riproponeva l’internazionalizzazione della città provocò la decisa reazione del governo israeliano. Quattro giorni dopo l’esecutivo dichiarò il provedimento “totalmente inapplicabile” perchè “violava i diritti naturali e storici del popolo che abitava in Sion” [14]. Fu deciso di trasferire a Gerusalemme tutti i ministeri e la Knesset. Il 23 gennaio 1950 il parlamento approvò una risoluzione che dichiarava Gerusalemme capitale dello stato ebraico. La mossa non venne riconosciuta dal consesso internazionale. Americani e inglesi furono i capofila di una resistenza che si tradusse nel mancato trasferimento delle ambasciate da Tel Aviv. Per rendere meno amara la pillola dell’internazionalizzazione, il Consiglio di amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite elaborò uno statuto della città che distingueva tra la sovranità vera e propria (affidata all’ONU) e l’autorità amministrativa, che sarebbe stata suddivisa tra israeliani (Gerusalemme Ovest), giordani (Gerusalemme Est e quartiere musulmano della Città Vecchia), e comunità internazionale (quartiere cristiano, armeno e ebraico della Città Vecchia). Il progetto, detto “piano Garreau”, fu presentato nel gennaio 1950, ma si scontrò ancora una volta con un muro di veti. Nel frattempo era maturata la divisione del mondo in due blocchi e l’opposizione sovietica alla tesi dell’internazionalizzazione rese più difficile che mai l’attuazione di questo progetto. La situazione di Gerusalemme rimase dunque cristallizzata fino all’estate del 1967.

La Guerra dei sei giorni e le sue conseguenze

Il 7 giugno 1967, nel corso della Guerra dei sei giorni, la parte orientale della città venne occupata dalle truppe ebraiche. Il gran rabbino dell’esercito, il generale Shlomo Goren, si precipitò al Muro del Pianto e – deciso a rifarsi delle umiliazioni poste al culto ebraico nel corso del Mandato [15] – vi srotolò la Torah e diede fiato allo shofar. Il comandante dei paracadutisti Motta Gur salì sul Monte del Tempio e issò in cima alla Cupola della Roccia e alla moschea Al-Aqsa due bandiere israeliane. Ma il ministro della Difesa Moshe Dayan intervenne e ordinò immediatamente di toglierle. Contemporaneamente affermò che gli ebrei – ora che erano riusciti finalmente a riunificare la capitale d’Israele – non avrebbero mai più lasciato i loro siti religiosi. Ai cittadini di fede cristiana e musulmana sarebbe stata garantita piena libertà religiosa [16]. Gli fece eco il ministro Levi Eshkol, il quale rese subito nota la politica che lo stato d’Israele intendeva perseguire in materia di luoghi santi: custodirli, garantirne il carattere religioso e universale e permettervi il libero accesso senza interferire nella loro amministrazione [17]. Il governo si diede da fare per rimuovere al più presto il confine tra le due parti della città, così da creare di fatto una Gerusalemme unita ed ebraica prima di ogni possibile intervento dell’ONU. Contemporaneamente, l’esecutivo – di cui facevano parte anche il Partito nazionale religioso e l’Herut di Menahem Begin – prese la non facile decisione di lasciare la Spianata delle Moschee in mano ai musulmani. La scelta si basava su due ragioni: realismo e opportunità. Realismo perchè l’ardore di alcuni gruppi nazional-religiosi ebraici desiderosi di veder ricostruito il loro Tempio avrebbero prima o poi provocato gravi problemi di ordine pubblico. Se qualche sconsiderato fosse riuscito a distruggere la Cupola della Roccia o la moschea Al-Aqsa, la reazione dell’intero mondo islamico sarebbe stata incontrollabile. Opportunità, per mostrare alla comunità internazionale che lo Stato d’Israele era equilibrato e impegnato a rispettare i diritti delle altre religioni. Dayan, il principale artefice di questa decisione, era un militare e un laico. Non erano i simboli religiosi ad interessarlo, quanto piuttosto il mantenimento dell’ordine e la sicurezza dello stato. Le preghiere dei musulmani sull’Haram Al-Sharif ripresero subito dopo la fine della guerra. Unica differenza con il passato: agli ebrei sarebbe stato consentito l’ingresso sul Monte del Tempio. Una stazione di polizia israeliana fu istallata sulla Spianata e le autorità statali requisirono le chiavi di una delle porte di accesso, quella più vicina al Muro Occidentale. Tutti i territori conquistati durante la Guerra dei sei giorni vennero posti sotto il regime di occupazione militare. Non così avvenne per Gerusalemme, che era considerata “la Capitale eterna dello Stato d’Israele“. Tra il 27 e il 28 giugno 1967 la Knesset approvò tre leggi che comportavano di fatto l’annessione della parte orientale della città. I confini municipali di Gerusalemme vennero allargati, passando da 38 kmq a 108 kmq. I suoi abitanti erano ora 263 mila, di cui 197 mila ebrei, 55 mila musulmani e 11 mila cristiani. Nel fissare il nuovo tracciato della città il governo seguì due criteri: annettere la maggior quantità di territorio ed escludere il maggior numero di popolazione araba.

I palestinesi che abitavano nella parte orientale della città rifiutarono in massa la cittadinanza israeliana. Da allora gli arabi di Gerusalemme Est hanno mantenuto uno status giuridico schizzofrenico: la loro carta di identità è emessa dallo Stato ebraico e permette loro di godere di tutti i servizi pubblici e sociali erogati da Israele, ma il loro passaporto rimane giordano. Non possono votare per la Knesset e nonostante sia concesso loro di eleggere le rappresentanze municipali, hanno sempre rifiutato di partecipare alle consultazioni, per non fornire una legittimazione all’occupazione israeliana della città. Gli eventi del 1967 provocarono un’importante mutamento nella politica della Santa Sede. L’ipotesi dell’internazionalizzazione territoriale di Gerusalemme non era più realistica. Il pontefice cominciò allora a sostenere la necessità di applicare alla città uno “statuto internazionale garantito“, mirato alla tutela della libertà di culto, al rispetto e alla conservazione dei luoghi santi, “con particolare riguardo alla fisionomia storica e religiosa di Gerusalemme” [18].

La lotta per il Monte del Tempio

La decisione di Dayan di lasciare il Monte del Tempio in mano ai musulmani venne facilitata dalla posizione del gran rabbinato di Israele. Un pronunciamento religioso vietò agli ebrei di salire nella Spianata. Camminandovi in condizioni di impurità, infatti, i fratelli avrebbero corso il rischio di profanare il Santo dei Santi (la parte più sacra del Tempio, quella dove era posta l’Arca dell’Alleanza), la cui esatta ubicazione era sconosciuta.

I problemi iniziarono quando il rabbino Shlomo Goren – compulsando i testi sacri ed esaminando le teorie di autorevoli archeologi – affermò di aver individuato il luogo dove sorgeva il Santo dei Santi. Egli affermò che il sito era situato pochi metri ad ovest della Cupola della Roccia ed elaborò un intricato elenco di regole che avrebbero consentito agli ebrei la visita del Monte senza commettere peccato. Il 12 agosto 1967 Goren, accompagnato da un gruppo di fedeli, si presentò sull’Haram, ben deciso a tenervi uno speciale servizio religioso. Ad infuriarsi non furono solo i musulmani. Dayan reagì immediatamente, dando ordine perchè in futuro fosse impedito a Goren l’accesso alla Spianata, se intenzionato a celebrare il culto. Goren rimase sempre fedele alla tradizione ebraica secondo cui il tempio non poteva essere ricostruito da mani umane. Ma gruppi più radicali come i Fedeli del Monte del Tempio la pensavano diversamente. Il Muro del Pianto, secondo loro, era il simbolo della distruzione del tempio e della sconfitta del popolo ebraico. A lungo termine i membri di questo gruppo miravano alla ricostruzione del santuario. Nell’immediato intanto preferivano utilizzare le armi del diritto, combattendo la loro battaglia a colpi di ricorsi alla Corte suprema e di richieste di riconoscimento del diritto di preghiera sulla Spianata. Nel 1976 l’Alta corte di giustizia emanò un’importante sentenza. Il diritto di accesso al Monte veniva confermato. Ma ogni decisione in materia di libertà di culto era rimessa al governo. Quest’ultimo naturalmente, preoccupato di evitare i disordini, mantenne lo status quo imposto da Dayan nove anni prima. A metà del 1977 in Israele andò al governo la destra di Menahem Begin. La giurisprudenza della Corte suprema avrebbe consentito al nuovo premier di eliminare il divieto di culto sull’Haram. Ma nemmeno il leader di destra ebbe il coraggio di mutare lo status quo. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, numerosi tentativi di far saltare le Moschee della Spianata furono sventati sul nascere dai servizi di sicurezza israeliani o dalle guardie del Waaf. L’8 ottobre 1990 i Fedeli del Monte del Tempio, in piena crisi del Golfo, giunsero ai piedi della Spianata con un camion che conteneva un’enorme masso – tagliato senza utensili di ferro come prescrivevano i precetti biblici [19] – da posare sulla Spianata come pietra del Terzo Tempio. Questo gesto si sommò alla frustrazione dei palestinesi, delusi da oltre vent’anni di risoluzioni dell’ONU a loro favore rimaste inapplicate. All’inizio degli anni Novanta la comunità internazionale, che pure era corsa a liberare il Kuwait invaso dell’Iraq, sembrava aver dimenticato completamente la causa palestinese. L’intifada intrapresa nel 1987 aveva prodotto come unici risultati un netto peggioramente delle condizioni di vita degli arabi e la nascita del governo più a destra che lo stato ebraico avesse mai avuto. Quel mattino di ottobre dunque i palestinesi si riversarono in massa sulla Spianata, dove sfogarono la loro rabbia lanciando pietre sui fedeli in preghiera al Muro Occidentale e attaccando il corpo di guardia israeliano. Gli agenti dello stato ebraico vennero sommersi da una piaggia di oggetti di ogni tipo. Credendosi in pericolo di vita, cominciarono a sparare alla cieca sulla folla, provocando 17 morti e 150 feriti [20].

La colonizzazione di Gerusalemme Est

Dopo il 1967 Israele iniziò la costruzione di una serie di insediamenti nella parte orientale di Gerusalemme per “accerchiare” la parte araba della città e diluirne l’identità con una continua iniezione di coloni ebrei. Nacquero così le colonie di Betar, Mevasseret Zion, Giv’at Ze’ev e Ma’ale Edomim. Quest’ultimo, nato nel ’75 e divenuto municipio autonomo nel ’91, ospita oggi 25 mila abitanti ed è il più grande insediamento dei Territori occupati. Il 30 luglio 1980 la Knesset promulgò una legge di rango costituzionale (Basic Law) che proclamava «Gerusalemme unita» capitale dello stato di Israele [21]. I confini municipali non venivano modificati, né l’amministrazione della città subiva dei mutamenti. Gerusalemme, però, rimase di fatto una città divisa. Le scuole arabe seguivano programmi diversi da quelle israeliane, i palestinesi gestivano un proprio servizio di autobus, un ospedale, una Camera di commercio, un’azienda per l’elettricità e un Comitato islamico per la gestione degli affari religiosi. A partire dalla metà degli anni Ottanta nacquero alcuni gruppi estremistici ebrei dediti all’insediamento di coloni all’interno dei quartieri arabi di Gerusalemme Est. I più importanti erano Ateret Cohanim e El Ad,  finanziati da facoltosi ebrei americani e sostenuti dallo stesso governo israeliano. Ateret Cohanim si occupò di acquistare case nella Città Vecchia, installarvi famiglie ebraiche e proteggerle dall’odio dei musulmani che le circondavano. Nell’aprile del ’90, in piena Intifada, i membri dell’organizzazione occuparono un immobile anche nel quartiere cristiano – l’ospizio greco-ortodosso di San Giovanni, posto in prossimità del Santo Sepolcro – scatenando una violenta querelle con le comunità cristiane di Gerusalemme e il governo di Atene [22]. La specializzazione di El Ad è soprattutto l’insediamento di ebrei nel quartiere arabo di Silwan, luogo altamente simbolico perché sede dell’antica città di Davide. Secondo i membri di questo gruppo, prima dei pogrom degli anni Venti due terzi della popolazione del quartiere erano ebrei. Obiettivo di El Ad è dunque ristabilire questa proporzione con il progressivo acquisto di terre dagli arabi e il trasferimento di famiglie ebraiche [23]. Per frenare il trasferimento di case e terre dalle mani dei palestinesi a quelle degli ebrei, nel maggio del ’97 il mufti di Gerusalemme Akrama Sabri ribadì la validità di una fatwa emessa settant’anni prima dal suo predecessore Hajj Amin Al-Husseini. L’ordinanza religiosa proibiva ai musulmani di vendere terre agli ebrei, pena l’espulsione dalla comunità dei credenti. Alla morte di un “traditore” non si sarebbero svolti regolari funerali e la salma non sarebbe stata sepolta in un cimitero musulmano. Non meno drastica la presa di posizione dell’Autorità palestinese, il cui ministro della Giustizia affermò che le transazioni da arabi a ebrei andavano considerate come “un’infamia” ed avrebbero dovuto essere punite con la condanna a morte “in modo sommario” [24].

All’inizio del ’97 il governo Netanyahu diede il via libera alla costruzione di un nuovo insediamento a sud-est della città. Le ruspe israeliane si presentarono sulla collina di Har Homa (Jabal Abu Ghneim per gli arabi) il 18 marzo, accolte da un migliaio di palestinesi intenzionati a dare battaglia. Per costruire il complesso (6.500 appartamenti per 30 mila abitanti, tutti ebrei), il governo aveva espropriato una sessantina di ettari dai vicini villaggi arabi di Um Tuba e Beit Sahur. Nonostante le violente dimostrazioni arabe e la condanna delle Nazioni Unite, la costruzione del quartiere di Har Homa completò l’accerchiamento: Gerusalemme Est era ormai circondata da una fascia esterna di insediamenti ebraici che impedivano ogni sviluppo edilizio a favore della prolifica popolazione araba. Il 25 aprile l’Assemblea generale dell’Onu votò la risoluzione ES-10/2, che condannava tutte le misure prese per alterare lo status e la composizione demografica di Gerusalemme [25]. La risoluzione auspicava l’adozione di garanzie internazionali per assicurare libertà di religione e di coscienza e libero accesso ai luoghi santi per i fedeli di tutte le religioni e nazionalità. Queste ultime frasi riecheggiavano le proposte della Santa Sede per la Città Santa, che nel 1994 avevano ottenuto il sostegno incondizionato da parte di tutti i capi religiosi cristiani di Palestina [26].

La Grande Gerusalemme

Nel maggio del ’97 il quotidiano Ha’aretz svelò un progetto segreto della municipalità e del ministero dell’Interno chiamato “Allon Plus”. Il riferimento era al piano Allon, elaborato negli anni Settanta, che prevedeva tra l’altro la creazione di una «Greater Jerusalem» attraverso l’espansione dei confini municipali. Sarebbero stati inclusi nella città i villaggi arabi di A-Ram, ATur, Abu Dis e gli insediamenti ebraici di Ma’ale Edomim ad est, Beit El e Givat Ze’ev a nord e Gush Etzion a sud, per un totale di 440 km2, il 15% della Cisgiordania. Il piano avrebbe compromesso definitivamente la possibilità dei palestinesi di far valere i loro diritti sulla Città Santa. A lungo termine l’Allon Plus mirava a raddoppiare il numero degli abitanti ebrei di Gerusalemme e a chiudere definitivamente ogni corridoio tra la città e la West Bank [27]. L’idea della Grande Gerusalemme non era nuova. L’aveva avanzata per la prima volta il governo Shamir all’inizio degli anni Novanta, quando Israele si trovò a fronteggiare l’ondata di emigranti dall’ex Unione Sovietica. Rabin la riprese nel ’95, ma senza mai trasformarla in un progetto dettagliato. Dal ’67 al ’95 gli israeliani espropriarono per gli insediamenti oltre due terzi dei terreni di Gerusalemme Est. All’inizio del 1996 – quando la città contava 602.100 abitanti, di cui 180.900 arabi e 421.200 ebrei – nel settore orientale venne raggiunta la parità demografica tra le due comunità (360 mila abitanti complessiva mente). Tra il 1967 e il 1995 solo 9 mila appartamenti furono costruiti per i palestinesi di Gerusalemme, mentre ne vennero edificati ben 65 mila per gli ebrei [28]. Alla fine del 1995 il governo israeliano adottò una nuova misura per combattere la battaglia demografica di Gerusalemme: la cancellazione dello status di «residenti permanenti» ai palestinesi della parte orientale della città, che permetteva loro di usufruire di alcuni servizi erogati dallo stato ebraico. Precedentemente la carta d’identità azzurra veniva ritirata quando un palestinese rimaneva lontano da Gerusalemme per sette anni o otteneva un passaporto estero. Da quel momento invece la qualità di residente venne revocata a tutti i palestinesi incapaci di dimostrare che Gerusalemme era al centro della loro vita [29]. Ma ben presto la mossa si rivelò un boomerang per gli israeliani, dato che i palestinesi tornarono in massa nella città per non perdere i propri diritti di residenti. Nel 1998 il governo Netanyahu, allarmato dalle previsioni demografiche che vedevano la popolazione araba in netta crescita rispetto a quella ebraica, ripropose ufficialmente il piano della Greater Jerusalem. Le proteste dell’Onu e della Comunità Europea costrinsero Netanyahu a rallentare la realizzazione del piano. Il pro- getto venne infine abbandonato a causa della caduta del governo e dell’opposizione delle piccole municipalità situate nella parte Ovest di Gerusalemme, che non volevano saperne di essere accorpate nella città. Il nuovo premier, il laburista Ehud Barak, non fu però più flessibile. Già in campagna elettorale dichiarò di considerare Gerusalemme capitale unica ed indivisibile dello Stato ebraico, nel contesto del progetto della Greater Jerusalem [30].

Alcune proposte di soluzione

A partire dal 1967, un gran numero di studiosi, politici e organizzazioni pacifiste avanzarono proposte per la soluzione del problema di Gerusalemme. Adnan Abu Odeh, ex ambasciatore giordano presso le Nazioni Unite e fidato consigliere di re Hussein, nel 1992 propose di dichiarare la parte vecchia di Gerusalemme uno “spiritual basin” sottratto alla sovranità di tutti gli Stati e amministrato da un consiglio delle massime autorità delle tre religioni. Nella parte orientale della città nuova la sovranità sarebbe stata attribuita allo stato palestinese, in quella occidentale allo stato ebraico [31]. Contemporaneamente, il palestinese Sari Nusseibeh (membro del comitato direttivo dell’Autorità nazionale palestinese) e l’israeliano Mark Heller (ricercatore presso il Jaffee Center for Strategic Studies dell’Università di Tel Aviv) presentarono un piano che prevedeva una Gerusalemme unita, amministrata da un Consiglio municipale eletto da tutti i suoi residenti. A livello inferiore l’autorità amministrativa sarebbe stata suddivisa in quartieri. Quelli arabi sarebbero stati gestiti da una municipalità palestinese, quelli ebraici da una municipalità israeliana [32]. John Whitbeck, esperto americano di diritto internazionale vicino alle posizioni palestinesi, presentò il suo progetto per la prima volta nel 1989, ma lo ripropose più volte nei primi mesi del 1996. La sua ipotesi prevedeva una sovranità congiunta sulla città unita. Gerusalemme sarebbe dovuta diventare un condominium, con un sistema di consigli di quartiere e con un’ampia possibilità di commerci e contatti fra una zona e l’altra. Al culmine del processo di pacificazione, infine, la Città Santa sarebbe stata completamente smilitarizzata [33]. Un progetto ulteriore – forse il più dettagliato e famoso – venne elaborato nel 1993 dall’organizzazione non-profit Ipcri (Israel-Palestine center for research and information). Palestinesi e israeliani avrebbero dovuto redigere una «Jerusalem Charter» con i confini della città e la suddivisione dei poteri fra le comunità. La giustizia sarebbe stata amministrata da uno speciale tribunale misto. La polizia sarebbe stata composta in ugual parte da israeliani e palestinesi. Ogni cittadino di Gerusalemme avrebbe potuto scegliere la propria lingua (fra arabo, ebraico e inglese), la propria scuola e il proprio culto. Il delicato problema della sovranità era affrontato secondo il modello della scattered sovereignty: la città sarebbe rimasta unita, ma le diverse aree sarebbero state sottoposte alla giurisdizione israeliana o palestinese a seconda della composizione demografica. I nuovi confini di Gerusalemme sarebbero stati tracciati con l’intento di includervi anche la popolazione araba che era stata volutamente esclusa nel 1967. Il governo cittadino avrebbe potuto essere diviso in due tronconi (uno affidato agli israeliani, l’altro ai palestinesi), oppure essere amministrato congiuntamente dalle due comunità in base al loro peso demografico. Il principio che ha ispirato gli autori del modello – al di là della sua effettiva realizzabilità – è quello dell’unità nella diversità [34].

L’accordo Beilin – Abu Mazen

Alcune delle idee avanzate in questi piani furono fatte proprie dal ministro israeliano Yossi Beilin e da Abu Mazen, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp. I due, nel corso di lunghi colloqui segreti, elaborarono un piano che avrebbe dovuto servire come base per le trattative previste per il maggio 1996. Queste, secondo le scadenze determinate a Oslo, avrebbero dovuto condurre alla firma della pace definitiva. Il piano prevedeva una Gerusalemme aperta e indivisa. I limiti municipali sarebbero stati estesi fino ai villaggi arabi di Abu Dis, Eyzari ya, A-Ram e A-Zaim e agli insediamenti ebraici di Maale Edomim, Giv’at Ze’ev e Giv’on. La City of Jerusalem così ottenuta sarebbe stata amministrata da un Joint Higher Municipal Council. A due sub-municipalità – elette separatamente dagli abitanti dei quartieri israeliani e palestinesi – sarebbero stati affidati importanti poteri amministrativi, come la tassazione, i trasporti pubblici, la gestione del sistema educativo, la pianificazione abitativa e del territorio. L’Olp avrebbe riconosciuto la parte amministrata dalla sub-municipalità ebraica come capitale dello stato ebraico (Yerushalayim). Quest’ultimo avrebbe riconosciuto la parte amministrata dalla sub-municipalità araba come capitale dello stato palestinese (Al-Quds). La sovranità sulle restanti sezioni della città – in pratica la parte orientale – sarebbe stata determinata da un comitato israelo-palestinese da formarsi entro il 5 maggio 1999. Le parti avrebbero riconosciuto la specificità del ruolo religioso e spirituale di Gerusalemme impegnandosi a garantire libertà di culto e di accesso ai luoghi santi e uno speciale status alla Città Vecchia, all’interno della quale due sub-municipalità sarebbero state responsabili per le questioni municipali riguardanti i rispettivi cittadini. Questi due organi avrebbero nominato un Joint Parity Committee per l’amministrazione di tutte le materie relative alla preservazione del carattere unico di quest’area. Allo stato di Palestina sarebbe stata riconosciuta sovranità extraterritoriale sull’Haram Al-Sharif, la cui amministrazione sarebbe stata affidata al Waqf di Al-Quds. Sull’Haram sarebbe stato mantenuto lo status quo riguardo al diritto di accesso e di culto. La chiesa del Santo Sepolcro sarebbe stata per il momento amministrata dalla sub-municipalità palestinese. Il controllo dei beni e delle persone sarebbe avvenuto ai punti di uscita della città. Gli israeliani che fossero rimasti entro le frontiere dello stato palestinese sarebbero stati soggetti alla sovranità palestinese. A coloro che avessero avuto il domicilio permanente entro lo stato palestinese al 5 maggio 1999 sarebbe stata offerta la possibilità di divenire cittadini palestinesi o rimanere “alien residents” [35]. L’accordo fu completato dopo un anno e mezzo di trattative il 30 ottobre del ’95, pochi giorni prima dell’assassinio di Rabin. Il suo successore Shimon Peres preferì mantenerlo segreto per ragioni elettorali, visto che già il suo avversario Benyamin Netanyahu stava incentrando la campagna elettorale sullo slogan “Peres dividerà Gerusalemme”. Ma presto le indiscrezioni filtrarono e i palestinesi, alla luce della fredda accoglienza riservata da Peres all’intesa, la sconfessarono pubblicamente [36]. L’ultradestra israeliana cercò di ostacolare la realizzazione del progetto Beilin-Abu Mazen creando dei fatti compiuti favorevoli agli ebrei. Irving Moskovitz, un miliardario ebreo americano grande finanziatore di Ateret Cohanim, possedeva un terreno e alcune abitazioni nel villaggio di Ras Al-Amud, esattamente a metà strada tra Abu Dis e la Spianata delle Moschee. Moskovitz, appoggiato dalla municipalità di Gerusalemme – ben deciso ad interrompere la continuità territoriale tra la futura capitale palestinese (Abu Dis/Al-Quds) e l’Haram Al-Sharif – ottenne l’autorizzazione per la costruzione di un complesso di 132 appartamenti, mentre in quelli già esistenti si insediarono alcune famiglie di attivisti del movimento Ateret Cohanim.

Il fallimento del vertice di Camp David

L’11 luglio del 2000 il presidente Clinton convocò un vertice tra israeliani e palestinesi, nella speranza di concludere il proprio mandato con un accordo di pace sul Medio Oriente. Le due delegazioni rimasero chiuse nella tenuta presidenziale di Camp David fino al 25 luglio. Per la prima volta gli israeliani discussero apertamente della divisione di Gerusalemme con i loro partner abbandonando la posizione, tenacemente mantenuta fino a quel momento, di concedere ai palestinesi un’autonomia amministrativa più o meno estesa sulla parte orientale della città. Nonostante questo passo avanti, sulla Città Santa si registrarono le divergenze più gravi, che portarono al fallimento dei negoziati e alla fine di settembre allo scoppio della nuova Intifada. Durante i colloqui di Camp David i mediatori statunitensi, sempre alla ricerca di “soluzioni creative”, attinsero a piene mani all’accordo Beilin-Abu Mazen. Mentre l’approccio degli israeliani prevedeva la ricerca dell’accordo su un particolare per volta, i palestinesi chiesero di partire dai princìpi generali. Ancor prima di iniziare a negoziare, secondo Arafat, Barak avrebbe dovuto riconoscere la sovranità palestinese su Gerusalemme Est. Nei giorni seguenti emersero alcune proposte interessanti per il futuro della città. Distinguendo fra «sovranità» e «autorità funzionale», gli israeliani proposero di affidare la gestione autonoma dei quartieri a maggioranza araba di Gerusalemme Est ai palestinesi e di trasformare Abu Dis/Al-Quds nella tanto agognata capitale. In cambio i confini municipali della città sarebbero stati allargati secondo il modello della Greater Jerusalem. Sull’ambiguità fra autorità e sovranità si giocarono il destino della Città Vecchia e della Spianata delle Moschee. Per un attimo sembrò che l’accordo potesse essere raggiunto: ai palestinesi l’Haram, il quartiere musulmano e quello cristiano, agli israeliani il Muro Occidentale e i quartieri ebraico e armeno della Città Vecchia [37]. Sulla moschea Al-Aqsa e sulla Cupola della Roccia avrebbe potuto sventolare la bandiera palestinese come “simbolo di sovranità”, ma senza sovranità effettiva. Il responsabile israeliano per i servizi di sicurezza, Israel Hasson, arrivò a proporre uno statuto speciale per la Città Vecchia, gestita con- giuntamente e controllata da un corpo di polizia misto. Ma alla fine i discorsi di principio sovrastarono la ragionevolezza. “Non accetteremo altro che Gerusalemme Est come capitale sottoposta alla nostra sovranità”, dichiarò Arafat a Clinton. A sua volta Barak replicò che nessun leader israeliano si era spinto tanto in là nelle concessioni e che di cessione della sovranità non si sarebbe nemmeno potuto parlare. In extremis Clinton avanzò un’altra proposta per sciogliere il nodo più difficile dei negoziati: l’Haram sarebbe rimasto sotto la sovranità israeliana, ma la sua gestione sarebbe stata affidata al Consiglio di sicurezza dell’Onu e al Marocco, presidente in quel momento del Comitato Al-Quds che riunisce i paesi arabi. Anche questa ipotesi venne respinta da Arafat con una lettera a Clinton datata 25 luglio. In un’intervista concessa al suo ritorno in patria, Barak confermò di essere disposto a riconoscere in Al-Quds la capitale palestinese, in cambio dell’annessione nei confini municipali di Gerusalemme di Givat Ze’ev, Ma’ale Edomim e Gush Et-zion. «Gerusalemme», dichiarò il premier, «non sarà mai stata così grande dai tempidi re David, e con una maggioranza ebraica così solida. Sarà, unita e sotto la sovra-nità di Israele, la nostra eterna capitale» [38]. I toni erano inconciliabili. Il vertice era fallito, ma aveva riproposto Gerusalemme come chiave dei negoziati fra i due popoli, dando il via a un nuovo filone di proposte [39]. Il 31 agosto il presidente egiziano Hosni Mubarak propose di aspettare 5 o 10 anni per una soluzione definitiva della questione di Gerusalemme. Nel frattempo israeliani e palestinesi avrebbero convissuto in una città unita, ma con due amministrazioni distinte. Avrebbero pregato e svolto funzioni di polizia l’uno accanto all’altro. L’idea venne subito respinta dagli israeliani.

Una nuova proposta sollevata da Egitto e Stati Uniti all’inizio di settembre prevedeva il trasferimento della sovranità sul Monte del Tempio ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza. L’idea era sostenuta anche dalla Francia, ma non ottenne l’assenso israeliano. Per risolvere la questione della Spianata gli americani inventarono anche una tesi innovativa, che prevedeva la divisione dell’Haram in quattro sezioni: il piazzale, le due moschee, il Muro Occidentale e il sottosuolo, ognuna con diverse gradazioni di autorità per ebrei e palestinesi. La sovranità sul luogo sacro, suggerirono americani ed egiziani, non sarebbe stata assegnata a nessuno stato, ma a Dio stesso. Il significato di questa formula era tutt’altro che chiaro. Alcuni pensarono che l’idea potesse essere associata alla proposta di un’amministrazione congiunta israelo-palestinese, con un coinvolgimento in essa delle varie comunità religiose. Altri fecero riferimento ad uno statuto in grado di definire, in termini funzionali, le competenze delle varie comunità; una commissione mista sarebbe stata incaricata di risolvere gli eventuali conflitti tra le parti e un comitato interreligioso sarebbe stato responsabile dei luoghi santi. Ziad Abu Ziad, uno dei negoziatori palestinesi, affermò che questa formula si sarebbe tradotta nel controllo militare arabo dell’Haram. Il sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert ovviamente la interpretò in modo opposto, ritenendo che essa significasse il mantenimento dello status quo sul Monte del Tempio. Si giunse così all’incontro del 25 settembre tra Arafat e Barak, che non produsse il minimo risultato. Di fronte ad un processo di pace che non ne voleva sapere di decollare – come era successo nell’ottobre del 1990 e nel settembre 1996 – i palestinesi presero spunto da una provocazione legata al Monte del Tempio per dare sfogo alla loro frustrazione. Il primo tragico bagno di sangue aveva riportato il loro dramma all’attenzione della comunità internazionale. Così nell’ottobre 1991 – liquidata la questione del Golfo – si aprì la conferenza di Madrid, che fu il prologo della storica Dichiarazione di principi del 13 settembre del 1993. Dopo i fatti del 1996, invece, Netanyahu fu costretto sedersi al tavolo delle trattative con Arafat e a siglare l’accordo su Hebron. La presente Intifada invece – benché a differenza degli altri due episodi sia uno scontro prolungato dai costi umani e materiali incalcolabili per ambedue le parti – non ha prodotto per il momento i medesimi risultati. Ciò è dovuto al fatto che si stanno affrontando i punti più delicati del processo di pace, di cui Gerusalemme è senza dubbio il più spinoso. I recenti avvenimenti hanno confermato quanto l’insanabile disputa per il Monte del Tempio continui a rappresentare il più difficile e pericoloso fattore del conflitto nazional religioso tra arabi ed ebrei. Gerusalemme e la sua sacra Spianata sono viste da ambedue le parti come un potente simbolo di identità nazionale. Con l’attivismo e l’intransigenza ostentata in questi ultimi anni riguardo al- l’Haram Al-Sharif, i palestinesi hanno voluto affermare la loro autorità sul luogo sacro. Sul fronte israeliano, nondimeno, è cresciuto negli ultimi anni il consenso alle attività di quei gruppi, come i Fedeli del Monte del Tempio, che combattono per il riconoscimento della sovranità ebraica sulla Spianata. Alcuni deputati di destra hanno recentemente chiesto al gran rabbinato di rimuovere il divieto di pregare sul Monte del Tempio. In questo modo, ha affermato Shaul Yahalom del Partito nazionale religioso “si mostrerebbe a Clinton e agli ebrei di tutto il mondo che il Monte è davvero il sito più sacro dell’ebraismo e una parte inseparabile dello Stato” [40]. Il problema di Gerusalemme è estremamente complesso. L’inestricabile legame tra religione e politica che lo caratterizza rende infatti difficile una soluzione che risponda ai tradizionali meccanismi del diritto internazionale. Sulla base di questi dati di fatto le proposte avanzate dal presidente Clinton a Washington sembravano raggiungere un buon compromesso, prevedendo la sovranità palestinese sulla Spianata delle Moschee, sui quartieri musulmano e cristiano della Città Vecchia, sui quartieri a maggioranza araba fuori le mura e sui villaggi posti ad est, immediatamente fuori dei confini municipali. Agli israeliani sarebbero rimasti il Muro Occidentale [41], il quartiere ebraico e parte del quartiere armeno dentro le mura, gli insediamenti costruiti dopo il ’67 all’interno dei confini municipali e quelli situati immediatamente all’esterno, da annettersi alla municipalità allargata. Sempre agli israeliani sarebbe stata riconosciuta la sovranità sul sottosuolo della Spianata, dove dovrebbero trovarsi i resti dell’antico Tempio. Ciò come garanzia che gli scavi compiuti dal Waqf non danneggino eventuali vestigia ebraiche [42]. Da questa proposta si potrebbe ripartire per negoziare con la mediazione della nuova amministrazione americana. Ma solo quando israeliani e palestinesi si saranno decisi ad abbandonare le proprie linee di principio e si mostreranno intenzionati a muovere dei passi l’uno nella direzione dell’altro.

Note

1. Cfr. «Clinton Weighs International Peace Conference», The Jerusalem Post, on-line edition, 7/1/2001.

2. Il rabbinato ha recentemente emesso un pronunciamento religioso secondo il quale l’halachah (la legge religiosa ebraica) proibisce di concedere la sovranità o la proprietà del Monte del Tempio ai gentili. «La sovranità è del popolo d’Israele e solo il discuterne rappresenta una profanazione del no-me di Dio», ha stabilito il gran rabbinato. Cfr. Melchior, «Mount Can also Be Gate to Hell», The Jerusalem Post, on-line edition, 8/1/2001.

3. Cfr. «Knesset Passes Law to Secure Jerusalem Limits», Ha’aretz, English Internet edition, 28/11/2000e «Knesset Bolsters Jerusalem Borders», The Jerusalem Post,on-line edition, 28/11/2000.

4. Un sondaggio del 1997 ha dimostrato che l’80% degli israeliani rifiuta di veder sorgere la capitaledello Stato palestinese a Gerusalemme Est; il 78% si oppone a qualsiasi negoziato sul futuro della cittàe il 60% mantiene questa posizione anche se ciò dovesse significare il totale fallimento dei negoziatidi pace. Cfr.  Journal of Palestine Studies , n. 103, Spring 1997, pp. 149-157.

5. «34 Injured after Sharon Tours Temple Mt»,The Jerusalem Post, Internet edition, 28/9/2000.

6. Cfr. The Jerusalem Post , 10/9/1996.

7. Cfr.  Jerusalem Post, 25/9/1996.

8. Cfr.  Jerusalem Times, 27/9/1996.

9. II Samuele, 24, 24-5.

10. I Re, 6, 1-13.

11. Sura, 17, 1.

12. Cfr. L’Osservatore Romano, 24/10/1948 e 17/4/1949.

13. Cfr. S. FERRARI, Vaticano e Israele, dal secondo conflitto mondiale alla guerra del Golfo, Firenze 1991, Sansoni, pp. 142 e 156-157.

14. Cfr. Documents on the Foreign Policy of Israel, vol. 4, doc. 453, Ben Gurion a Sharett, 4/12/1949.

15. La Wailing Wall Commission, creata nel 1930 dalle autorità mandatarie britanniche in seguito agliincidenti del 1929, aveva stabilito che il Muro del Pianto costituiva parte integrante dell’ Ha¯ram Al- Sharı ¯f ed era di esclusiva proprietà islamica. Agli ebrei era riconosciuto il libero accesso al sito adogni ora del giorno, ma gli consentiva di portare con sé solo pochi oggetti di culto. Un regolamentofissava addirittura le loro dimensioni. Era proibito ad esempio suonare lo shofar, portare sedie, panche, tappeti e paraventi. Queste decisioni vennero adottate dalla commissione permanente dei mandati e divennero legge con la promulgazione – l’8 giugno 1931 – del (Western or Wailing Wall) Order in Council . Cfr. P. PIERACCINI, Gerusalemme, Luoghi Santi e comunità religiose nella politica interna- zionale, Bologna 1997, EDB, pp. 366-368.

16. Cfr. U. N ARKISS, The Liberation of Jerusalem, London 1992, Vallentine Mitchell, p. 262.

17. Cfr. J. Le  MORZELLEC, La question de Jérusalem devant l’Organisation des Nations Unies, Bruxelles1979, Bruylant, pp. 421-422.

18. Cfr. in particolare l’allocuzione di Paolo VI del 26 giugno 1967 e il suo discorso del 22 dicembre1967 al sacro collegio, in E. FARHAT (a cura di), Gerusalemme nei documenti pontifici, Città del Vatica-no 1987, Libreria Editrice Vaticana, pp. 127-128 e 131-132. Questa posizione è stata più volte ribaditadalla Santa Sede, la quale in seguito ha precisato che lo statuto internazionalmente garantito deve es-sere limitato alla Gerusalemme storica (cioè alla Città Vecchia) e che l’applicazione di tale statutospetta a qualsiasi potere si trovi ad esercitare la sovranità sulla Città Santa (il che significa l’abbandonodell’idea di affidare la sovranità ad un organismo internazionale). Cfr. ad esempio il discorso tenuto il10 aprile 1989 alle Nazioni Unite dal rappresentante vaticano arcivescovo Renato Martino, in Documents on Jerusalem, Jerusalem 1996, Passia.

19. Es, 20, 25.

20. Le Nazioni Unite, condannando il comportamento dei militari, definirono Israele una «Occupying Power» e fecero riferimento alla IV convenzione di Ginevra relativa ai territori conquistati con la forza. Cfr. risoluzione 672 del 12/10/1990 in R. LAPIDOTH  – M. HIRSCH, The Jerusalem Question and Its Resolution, London 1994, Martinus Nijhoff, p. 452.

21. Cfr. R. LAPIDOTH – M. HIRSCH op. cit., p. 322.

22. All’interno della Città Vecchia, fuori dal quartiere ebraico, alla fine del 1997 Ateret Cohanim avevainsediato una sessantina di famiglie e fondato cinque yeshivot (scuole religiose ebraiche). Inoltre, il movimento stava curando il restauro di altri diciotto appartamenti per continuare l’opera di colonizzazione. Cfr. The Jerusalem Post, 21/11/1997.

23. A metà del 1998 El Ad era complessivamente in possesso di ventuno abitazioni nel quartiere di Silwan. Cfr. The Jerusalem Post, 9/6/1998.

24.  Jerusalem Times, 16/5/1997.

25. Cfr.  Journal of Palestine Studies, n. 104, vol. XXVI, Summer 1997, pp. 151-153.

26. Questi, il 4 novembre 1994, resero noto un documento comune nel quale chiesero per Gerusalemme uno status speciale, che riflettesse la sua importanza universale. La città era troppo preziosa per dipendere da una sola autorità politica, qualsiasi essa fosse. Questo status speciale – stabilito in comuneda autorità politiche e religiose locali e garantito dalla comunità internazionale – avrebbe dovuto fare diGerusalemme una città aperta, in grado di rimanere estranea ad ogni sorta di conflitti politici. Il documento era firmato dai patriarchi latino, greco-ortodosso e armeno, dai vescovi copto, etiope, siriano, lu-terano, anglicano e dai vicari patriarcali maronita, melchita e siro-cattolico di Gerusalemme. Cfr.  Jerusalem Times , 9/12/1994.

27. Cfr. Palestine Report, vol. 5, n. 2, 6/1998.

28. Tra il 1967 e il 1995 furono confiscati ben 23 mila dunum (circa 23 mila ettari) di terra per fini pubblici da proprietari privati arabi, usati per costruire case per gli ebrei: un concetto di «pubblico» che Meron Benvenisti trova veramente singolare, se si considera che solo il «pubblico» ebraico ne hapotuto beneficiare. Cfr. M. BENVENISTI, City of Stone. The Hidden History of Jerusalem, Berkeley-Los Angeles-London 1996, University of California Press, p. 155.

29. L’annuncio della fine di questa politica è stato dato nell’ottobre 1999 dal ministro dell’Interno del governo Barak, Nathan Sharansky. Secondo fonti palestinesi, le carte d’identità ritirate fino a quel momento erano state 2.800; e siccome assieme ai genitori perdevano il diritto di residenza anche i figli, il totale di questo «esodo silenzioso» aveva interessato circa 11 mila persone in cinque anni. Cfr. A. ANTONELLI, «Notorious ID Policy Ended», Palestine Report, vol. 6, n. 18, 20/10/1999.

30. Secondo le linee guida del governo Barak, «Greater Jerusalem, the eternal capital of Israel, will remain united and complete under the sovereignty of Israel». Cfr. Journal of Palestine Studies, vol. XXIX, n. 113, Autumn 1999, p. 139.

31. «Two Capitals in an Undivided Jerusalem», Foreign Affairs, vol. 70, n. 2, Spring 1992, pp. 183-88.

32. No Trumpet no Drums: A Two State Settlement of the Israeli-Palestinian Conflict, New York 1991,Hill and Wang.

33. «The Road to Peace Starts in Jerusalem», Middle East International, 14/4/1989 e «Jerusalem: The Condominium Solution»,  Jerusalem Times, 15/3/1996.

34. The Future of Jerusalem. Proceedings of the First Israeli-Palestinian International Academic Se- minar on the Future of Jerusalem, Jerusalem 1993, Ipcri.

35. Cfr. Ha’aretz, 21/9/2000.

36. Ciò non impedì ad Arafat di continuare ad avanzare per Gerusalemme una soluzione analoga aquella adottata per il Vaticano con il Concordato del ’29: una città aperta a tutte le fedi, indivisa e capi-tale sia dello Stato ebraico che di quello palestinese.

37. I capi delle comunità cristiane espressero la loro opposizione all’idea di porre il quartiere armeno sotto la sovranità israeliana, dato che i cristiani della Città Vecchia sarebbero rimasti divisi. Essi reiterarono la loro proposta – che ricalcava quella da loro avanzata nel 1994 e da sempre espressa dalla Santa Sede – di garantire a quella parte di città uno «statuto internazionalmente garantito» in grado di assi-curare libertà di accesso e di culto per i credenti delle tre religioni monoteistiche.

38. «Jerusalem and Al-Quds will Be Side by Side», Jerusalem Post, 28/9/2000.

39. Un resoconto dettagliato del vertice è in «Israel-Palestine: Camp David, une impossible negociation», Le Monde, 28/12/2000

40. Cfr. The Jerusalem Post, 8/1/2001.

41. Riguardo al Muro del Pianto rimane da risolvere il problema se si debba affidare a Israele la sola parte dove da secoli gli ebrei si raccolgono in preghiera o l’intera lunghezza del Muro Occidentale della Spianata: quest’ultima ipotesi permetterebbe agli ebrei di entrare in possesso anche del tunnel sotterraneo scavato dagli israeliani a partire dal 1968 e la cui seconda uscita è stata realizzata nel settembre 1996 nel quartiere arabo.

42. Il Santo Sepolcro e la gran parte degli altri luoghi santi cristiani fuori le mura resterebbero affidati ai palestinesi; questa soluzione, che non sarà gradita a gran parte della comunità cristiana locale e alla Santa Sede, è comunque in linea con quella adottata a Betlemme, dove l’altro importante santuario della cristianità – la basilica della Natività – è amministrato ormai da cinque anni dall’Autorità palestinese.

 

 

 

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